3 maggio 2014

La bottega delle idee

Dlin dlon!
La nostra prima e unica decisione unanime e senza mediazioni è stata quella sul suono del campanello della porta. Il classico mi-do metallico, originalità zero ma molta delicatezza.
Tutto è cominciato con un dialogo tra Floriana e suo cugino Pietro.
Floriana: “Perché quella faccia triste?”.
Pietro: “Eh”.
Floriana: “Non ho capito…”.
Pietro: “Otto giorni”.
Floriana: “Pietro… Mi spieghi?”.
Pietro: “La mobilità mi fi nisce fra otto giorni. Poi sarò a spasso”.
Floriana: “Nessuna prospettiva?”.
Pietro: “Capirai! La città è tappezzata di avvisi: AAA cercasi operaio generico cinquantottenne. Le fabbriche fanno a gara per accaparrarsi gente con le mie caratteristiche”.
Floriana: “Visto che non ci sono soluzioni pronte devi inventarti qualcosa su misura…”.
Pietro: “Tu sei matta. Io sono solo da buttare, altro che riciclarmi…”.
Dopo questo incontro nessuno ha più sentito Floriana per un mese circa. Io ero preoccupato. Difficile che fosse malata, era più probabile che di lì a poco avrebbe rivoltato l’esistenza a parecchia gente. Infatti, una sera di inizio primavera è arrivata la sua telefonata: “Lucio! Abbiamo il locale e la promessa di due borse-lavoro. Meglio di niente. Ci vediamo dopodomani a casa mia”.
Ha chiuso la comunicazione senza darmi il tempo di dire alcunché. Agli ordini, capo!
Due giorni dopo ci siamo trovati in otto e mezzo (Giulia è entrata nell’ottavo mese di gravidanza) per discutere dell’idea di una bottega di riuso, riciclo, trasformazione, baratto, creazione, scambio di conoscenze, corsi di formazione e cosucce di questo tipo.
Immaginare di dare nuova vita a ciò che è a fi ne percorso era un po’ come parlare di noi, che per un motivo o per un altro avevamo tutti e tutte bisogno di ricominciare: Floriana per riempire i vuoti di vedova e pensionata, Giulia per darsi un’occasione lavorativa in vista della maternità da single, Flavio per trovare uno
spazio creativo, Pietro per non impazzire in qualità di prossimo disoccupato cronico, sua figlia Camilla per esercitare le sue doti artistiche, Elena per cambiare il mondo partendo da piccole azioni rivoluzionarie tra cui non nascondere il suo amore per Serena, Serena per amore di Elena e dei suoi ideali e io, ex-motociclistacretino, per trovare la maniera di utilizzare costruttivamente la parte superiore del corpo, l’unica che mi è rimasta attiva dopo l’incidente.
Quella sera è nata “Bussola e Sestante”, associazione no profit di navigatori con tante speranze e pochi denari.
Floriana ci aveva dato il primo compito: proporre dieci punti-caratteristiche del tipo ‘Nella bottega ci vuole…’. Mica facile! Fino a sei o sette non ho avuto problemi, poi non mi veniva in mente altro. Ma dieci era il numero obbligatorio. Non un punto in più, non uno in meno.
Abbiamo letto a turno le liste e votato punto per punto. L’unanimità l’ha avuta solo il campanello – dlin dlon! – proposto da me (il mio faticoso numero nove) e da Serena.
“Almeno sappiamo da dove cominciare!”, ha esultato Floriana versando nelle tazze una tisana rossa profumata all’arancia.

Grazie all’instancabile opera di persuasione del nostro generale supremo, l’amministrazione comunale ci ha concesso per due anni l’uso di un locale in un quartiere periferico in espansione, in mezzo a un’area-cantiere scomoda per tutti, in particolare per me, che dovevo attraversare su ruote aree di scavo, tappeti di cemento
fresco e tubi di gomma, zigzagando tra una quantità di buche in crescita costante. Prendere o lasciare. Preso.
Fortunatamente l’assessore era così entusiasta della nostra idea che ha fatto in modo di sbloccare rapidamente i fondi per due piccole borse-lavoro, una per Giulia e una per Pietro.

La settimana seguente il dlin dlon! segnalava l’ingresso in bottega di chi entrava con una latta di vernice o giornali vecchi. Abbiamo tinteggiato secondo il nostro disaccordo: ogni parete un colore diverso, perché su questo punto non eravamo arrivati all’unanimità e avevamo dovuto trovare un’alternativa. Abbiamo
stabilito che ciascuno poteva dipingere con tutti i colori tranne quello proposto, per esonerare dal compito Giulia, l’unica ad aver scelto il rosso, quella fra noi che più avrebbe patito la fatica e l’odore forte della tinta.
Pitturavamo a ritmo di musica rimuginando sul nome da dare all’attività.
Al secondo giorno di tinteggiatura, Camilla ci ha annunciato, tra i grugniti del padre, di essersi fidanzata con uno studente di medicina all’ultimo anno.
“Non sei contento?”, gli aveva domandato Floriana.
Lui aveva dato alcune pennellate piuttosto grintose, battezzando di verde Flavio e la mia sedia a rotelle, e aveva ringhiato: “Si chiama Bassam”.
Silenzio generale. “Embè?”, lo aveva sfi dato Camilla a spalle strette.
Dell’altro verde aveva piroettato nell’aria, accolto in gocce dal giallo limone della parete accanto. In quel momento è entrata Giulia e ha trillato: “Che idea fantastica!”. Senza far caso al nostro stupore ha preso il pennellino dei ritocchi e le latte di rosso e celeste, trasformando il giallo macchiato in un angolo fiorito
davvero grazioso.
“Ah, Camilla, qui fuori c’è uno che ti aspetta. Carino!”, ha poi riferito, facendo l’occhiolino all’amica e levando dita arcobaleno in segno di vittoria. Camilla è corsa fuori e Giulia si è trasferita a rendere floreale la parete azzurra, appena investita da un altro scatto d’ira di Pietro.
“Bassam. Che nome è Bassam?”, masticava Pietro fra sé, mentre Flavio lo disarmava per risparmiare fiorellini a pavimento e soffitto.
“In arabo signifi ca sorridente”, ha buttato lì Elena, che nei suoi pellegrinaggi da precaria aveva lavorato in una scuola serale frequentata da persone straniere.
Pietro si è seduto a terra a testa china.
Dlin dlon!
Sei paia d’occhi spalancati hanno fissato la porta, nella cui cornice è comparsa Camilla per mano a un giovanotto di carnagione ambrata, capelli e occhi nerissimi, in tuta e scarpe da tennis.
“Salve, posso essere utile?”, ha detto con un gran sorriso. A parte Giulia, ancora intenta a ritoccare, eravamo tutti piuttosto rigidi, impegnati a ruotare lo sguardo ovunque, evitando accuratamente il nuovo arrivato. Camilla era radiosa e ha trillato: “Vi presento Bassam, si laurea fra tre mesi ed è molto curioso di conoscervi. L’idea della bottega l’ha fatto letteralmente impazzire! Vero che può entrare nella compagnia?”.
Solo in quel momento Pietro lo ha guardato, da sotto in su, e quasi si sentivano ticchettare gli ingranaggi del suo cervello.
“C’è da dare l’arancione”, ha borbottato qualche istante dopo, alzandosi. “Vieni, ti mostro dove pitturare”, ha aggiunto, lanciando uno sguardo severo alla figlia, che l’ha ricambiato con un bacio in punta di dita.
Solo allora noialtri cinque abbiamo ricominciato a respirare.

Una volta preparato lo spazio l’abbiamo riempito. Ciascuno di noi ha portato qualcosa da casa. Elena ha messo a disposizione la sua macchina da cucire e una collezione infinita di rocchetti di filo. Floriana la caraffa elettrica per scaldare l’acqua, libri e un servizio da tè del corredo matrimoniale, specificando che era ancora
imballato e le sembrava simbolico usarlo per la prima volta in bottega. Serena ha portato alcuni scatoloni pieni di vestiti usati e una vecchia enciclopedia femminile appartenuta a sua mamma, zeppa di idee creative. Camilla e Pietro fogli, pennarelli, fumetti e una sbilenca e mastodontica libreria che lui e Bassam, ormai diventato ufficialmente il nono membro del gruppo, hanno trasformato in tre agili scaffali. Io alcuni libri, quattro sedie pieghevoli e un divanetto in discrete condizioni. Flavio una fornitura di tisane, tè e pacchi di biscotti degna di una colonia estiva di nonnetti.
E poi è arrivata Giulia, preceduta dal pancione più rotondo del pianeta, che ha portato casa sua. Alla lettera, intendo: era stata sfrattata un’ora prima e aveva deciso che, nell’emergenza, si sarebbe trasferita in un angolino del locale. La sua auto, in effetti, straripava di scatoloni.
Flavio ha detto che se la faccenda fosse arrivata alle orecchie sbagliate avremmo potuto dire addio al progetto, alla bottega e alle borse-lavoro.
“Ma io non mi farò sorprendere da nessuno, me ne starò buona… Almeno fi nché non partorisco…”, aveva implorato lei rivolta a Floriana, che si era limitata a fissarla.
“Beh, il bagno c’è, possiamo mettere una brandina nel retro, una luce accesa non si vedrà dalla strada…”, rimuginava Pietro a mezza voce.
“E per cucinare? Mica può andare a mangiare al ristorante tutti i giorni!”, ha borbottato Serena poco convinta.
“Possiamo portarle noi qualcosa a turno”, ha proposto Elena accarezzando i capelli della fidanzata e strappandole un sorriso di approvazione.
“Grazie mille. Allora mi sistemo di là”, ha esultato Giulia trascinando un borsone verso il locale piccolo.
“Non se ne parla”.
Floriana ci ha congelati in quattro parole.
“Dai, non lo diremo a nessuno…”, ho buttato lì, più per prendere tempo che per risolvere la questione. Non c’è scampo con lei, se si mette in testa qualcosa.
Giulia ha cominciato a singhiozzare: “Scusatemi, avrei dovuto dirvelo tempo fa, ma non sapevo come…”.
Floriana l’ha abbracciata e lei è scoppiata a piangere. Per alcuni minuti nessuno ha fiatato. Io fissavo il soffitto, Elena e Serena, mano nella mano, sospiravano a testa china, Camilla sgranocchiava unghie e polpastrelli, Bassam legava e slegava i lacci delle scarpe, Flavio si schiariva la voce come se nell’ugola avesse sassi da espellere, Pietro faceva un passo verso le donne abbracciate e uno all’indietro, pausa, passo avanti, pausa, passo indietro.
Quando Giulia si è calmata, Floriana le ha preso il viso fra le mani e, in un sorriso grande così, le ha sussurrato: “Tesoro, tranquilla, tu verrai a stare da me. Non devi isolarti proprio adesso”.
Un quarto d’ora dopo sorseggiavamo tisana bollente come fosse champagne pregiato, brindando a noi e a L’Isola del Tesoro, il neonato nome della bottega, scelto all’unanimità per celebrare degnamente il lieto fine del trasloco di Giulia.

Abbiamo fatto l’inaugurazione la settimana successiva. Decine di persone si sono scoperte bisognose di un luogo che offrisse scambi e rinascite a diversi livelli. L’Isola del Tesoro è diventata in breve tempo un porto vivace e disordinato, dove incontrarsi, barattare oggetti e conoscenze, fermarsi ad ascoltare o narrare
storie, donare e ricevere qualunque cosa, materiale o immateriale, dove trasformare una maglia in borsa per la spesa, minuscoli scarti di lana in mosaici, vecchi oggetti in nuovi strumenti.

Oggi abbiamo rinnovato il contratto per l’uso dei locali.
La festa a L’Isola del Tesoro, però, è dedicata alla prima ecografia del pupo (o pupa) di Elena e Serena, custodito nella pancia di quest’ultima, e al secondo compleanno del piccolo Leone, il figlio di Giulia, che saltella al centro del tavolo. Da qualche giorno, chissà perché, ha preso a chiamarci tutti ci-o e ci-a, a parte Floriana, no-na, e Pietro, no-no. “Sembro davvero tanto vecchio?”, brontola lui ogni volta che lo sente.
Danzando, il monello minaccia coi piedi nudi la torta di panna e cioccolato sulla quale ha comunque già impresso l’impronta delle manine.
Questo coraggioso selvaggio, stando al racconto della mamma, è nato imbronciato. “Evidentemente non posso chiamarlo Bassam”, ha sentenziato Giulia vedendolo per la prima volta. E ha quindi scelto per lui un nome grintoso.
La prima volta che è venuto a trovarci all’Isola del Tesoro, Leone si è annunciato da lontano, ululando come una sirena d’ambulanza.
“Uèèèè! Uààà! Uèèè!”.
Giulia, che si avvicinava spingendo la carrozzina con decisione, aveva gli occhi spiritati, le guance scavate, i nervi sotto pressione.
“Sono dieci giorni che fa così. Se non mangia o non dorme, urla. Dieci giorni!”, ha strillato la neo-mamma a Serena, accorsa sul marciapiede per aiutarla a entrare.
“Ma quanti giorni ha, scusa?”, le ha chiesto Serena, perplessa.
“Undici”, ha detto Giulia digrignando i denti.
Sono scoppiate a ridere davanti alla vetrina, col sottofondo ululante del tenero bebè.
“Uèèè! Uààà! Uèèè!”.
“Ci farò l’abitudine, spero”, ha sospirato Giulia chiudendo la porta.
Dlin dlon!
E il silenzio è precipitato su di noi.
Ci siamo immobilizzati all’istante. Che fossimo diventati improvvisamente sordi?
“Uèèè! Uààà! Uèèè!”, ha ripreso il cucciolo per fugare ogni dubbio.
Dlin dlon! Serena ha riaperto la porta in punta di piedi. Silenzio istantaneo.
Dlin dlon! Dlin dlon! Dlin dlon!
“Funziona!”, ha esultato Giulia prendendo in braccio il bimbo e facendo una piroetta.
Dlin dlon! Dlin dlon! Dlin dlon!
Evviva il campanello de L’Isola del Tesoro! Da quel giorno, ogni volta che Leone veniva a trovarci, facevamo i turni alla porta. Apri, chiudi, apri, chiudi, dlin dlon! dlin dlon!
Dopo un po’, fortunatamente, gli è passata la smania, tanto che oggi potremmo anche soprannominarlo Bassam senza sbagliare di molto.
Ma un Leone ci vuole, nell’Isola del Tesoro, non è vero?

(pubblicato in "Diverso sarò io - Racconti sulla diversità a 360 gradi", a cura di Ass. Cult. Pescepirata, Armando Editore, 2014)

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