11 novembre 2015

Porterò la mia Cina con me

(racconto basato su una storia vera)

« Quando tornerò, nonna? »
« Oh, piccola, te l'ho detto ieri... »
« Ma io voglio tornare presto! »
« Tornerai quando sarai un grillo che conosce il suo canto. »
« Allora non devo nemmeno partire. Ascolta: griii griii griii! »
« Lusha... »
« Non chiamarmi Lusha, io sono il tuo grillo! Griii griii. »
« Va bene, grillo, ora dormi. Domani ci sarà molto da fare. »
La nonna esce dalla camera in punta di piedi per non svegliare gli altri nipoti, che dormono già.
Lusha chiude gli occhi ma non riesce a stare ferma. Domani sarà l'ultimo giorno a Fujian, l'ultimo a casa dei nonni, l'ultimo in Cina. Domani tornerà in Italia con la sua famiglia, arrivata la settimana precedente a prenderla.
Lusha è nata a Napoli, come suo fratello maggiore. I suoi genitori, a quel tempo, lavoravano in una fabbrica di abbigliamento insieme a decine di connazionali. In Cina non c'è lavoro per tutti, così bisogna arrangiarsi altrove.
Qualche anno dopo la sua nascita, si sono trasferiti a Torino, ma poco dopo Lusha è stata mandata in Cina. Non aveva ancora sette anni. Sapeva che quasi tutti i bambini cinesi che vivono all'estero vengono mandati a trascorrere un lungo periodo in patria, per imparare bene la lingua e conoscere la cultura delle proprie origini. Così è stato per Jingjian, suo fratello, che oggi ha diciassette anni, e così sarà per la sorellina che ha appena conosciuto, Lu Xin, nata a Torino poco più di due anni prima.
Lusha ha vissuto senza i genitori per tre anni e ormai ci ha fatto l’abitudine. Dai nonni si sente a casa. Ma domani? Si gira e si rigira sotto la coperta e stringe i pugni.
La sera prima la mamma le ha detto che bisogna tornare presto presto a Torino perché papà deve curarsi, il dottore italiano lo vuole ricoverare con urgenza. E Jingjian deve cominciare la terza superiore. E lei deve riprendere il lavoro. E le sue figlie devono andare a scuola.
L'ombra della valigia accanto alla porta la agita. Se solo potesse metterci dentro tutta la campagna di Fujian, gli alberi delle foreste, ogni goccia del fiume Minjiang, il vitello alla piastra della nonna. E anche la nonna e il nonno.
La tosse di papà dalla stanza accanto interrompe i suoi pensieri notturni. Sta male davvero, sembra un drago con delle pietre in gola. Lusha scivola in corridoio e sente la mamma che piange e lui che la consola con un filo di voce.
La bambina torna in camera e affonda il volto nel cuscino.
Quando fuori dalla finestra scompare il buio e il cielo si fa grigio in attesa del sole, Lusha si alza, afferra lo zainetto da viaggio, si infila le scarpe ed esce di casa passando dalla finestra della camera. Attraversa il terrazzino e scende la piccola scala di pietra in punta di piedi, per non svegliare il cane della vicina.
Un passo dopo l'altro si allontana dalla casa dei nonni.
Arriva al fiume quando il cielo comincia a colorarsi di azzurro. Si siede sulla sua pietra preferita e lancia rametti controcorrente seguendone la traiettoria in volo e in acqua con lo sguardo.
Quando perde di vista l'ultimo bastoncino si sente pronta. Si volta e si avvia verso la periferia della città, verso la sua amata foresta.

Quel mattino, nonostante l'imminente partenza, a casa dei nonni si svegliano tutti senza fretta. Nessuno si accorge dell'assenza di Lusha fino a un paio d'ore prima di pranzo. La mamma pensava fosse andata dalla vicina a giocare col cane, il papà che fosse a spasso col fratello a cercare qualche souvenir per gli amici, Jingjian credeva che fosse con la nonna, uscita presto per andare al mercato.
«Vado a cercarla» dice il nonno.
Jingjian e i genitori passeggiano nervosi fra le stanze e la cucina. Mentre la mamma finisce di riempire le valigie il papà telefona alla maestra e ad alcune compagne di scuola. Nessuno ha visto Lusha, quel giorno.
Quando la tavola è già apparecchiata e le valigie sono ammucchiate nel corridoio, il nonno torna a casa. Dietro di lui sbuca Lusha reggendo lo zainetto. Ha le scarpe sporche di fango, è spettinata, ha un ginocchio e una mano graffiati.
Fioccano domande e rimproveri: « Lusha, insomma! » « Dove sei stata? » « Ci hai fatti preoccupare! »
« Era vicina alla scuola, stava venendo qui », borbotta il nonno.
« Non volevo scappare, se è questo che pensate. Dovevo solo fare una cosa prima di partire », sussurra lei con gli occhi bassi.
« L'importante è che sia tornata in tempo, non credete? », dice la nonna.
Lusha sorride e annusa l'aria: «Ho fame. C'è un profumino di vitello alla piastra! »
La nonna le fa l'occhiolino e con un gesto invita tutti a sedersi a tavola.

Il volo sembra non finire mai, dura molto di più del suo pianto d'addio.
Lusha è seduta accanto al finestrino e guarda il cielo. Di fianco a lei suo fratello legge una rivista e più in là la sorellina scarabocchia su un foglio con alcuni pennarelli.
«Jingjian, ricordami una parola facile in italiano», chiede Lusha.
« Ciao »
« Cos'è? »
« Significa ni hao. »
« Si assomigliano... »
Sorride. Forse non sarà poi così difficile riabituarsi.
« Lu Xin, tocca a te, insegnami la parola italiana che preferisci. »
« Caramelle! »
A Lusha scappa una risatina. Se la ricorda, quella parola. Sarà una delle prime che userà quando arriverà a Torino.
Sta per addormentarsi quando Jingjian le domanda sottovoce perché sia scappata di casa quella mattina.
« Ancora? Non sono scappata. Ho fatto una cosa », replica lei.
Lui non sembra convinto, allora Lusha aggiunge: « Te la mostro, se vuoi ». Estrae dallo zainetto da viaggio un quaderno sformato con i fogli pieni di piccoli reperti attaccati col nastro adesivo, tra cui ritagli di giornale, fiori e legnetti. « Ho raccolto i sassi del fiume, le foglie dell'albero degli scoiattoli, le bacche del nascondiglio segreto... ». Una foto ingiallita dei nonni occupa la prima pagina. «Porto a Torino la mia Cina, così la mostrerò a tutti i miei compagni di scuola».
Jingjian resta qualche secondo a bocca aperta, poi esclama: « È bellissimo! »
Ma Lusha non lo sente, si è finalmente addormentata, con la sua Cina fra le mani.


Lusha è nata a Napoli. Quando aveva circa sette anni è tornata in Cina dai nonni.
Oggi Lusha ha undici anni e vive a Torino con la mamma, il fratello maggiore e la sorellina.

3 maggio 2014

La bottega delle idee

Dlin dlon!
La nostra prima e unica decisione unanime e senza mediazioni è stata quella sul suono del campanello della porta. Il classico mi-do metallico, originalità zero ma molta delicatezza.
Tutto è cominciato con un dialogo tra Floriana e suo cugino Pietro.
Floriana: “Perché quella faccia triste?”.
Pietro: “Eh”.
Floriana: “Non ho capito…”.
Pietro: “Otto giorni”.
Floriana: “Pietro… Mi spieghi?”.
Pietro: “La mobilità mi fi nisce fra otto giorni. Poi sarò a spasso”.
Floriana: “Nessuna prospettiva?”.
Pietro: “Capirai! La città è tappezzata di avvisi: AAA cercasi operaio generico cinquantottenne. Le fabbriche fanno a gara per accaparrarsi gente con le mie caratteristiche”.
Floriana: “Visto che non ci sono soluzioni pronte devi inventarti qualcosa su misura…”.
Pietro: “Tu sei matta. Io sono solo da buttare, altro che riciclarmi…”.
Dopo questo incontro nessuno ha più sentito Floriana per un mese circa. Io ero preoccupato. Difficile che fosse malata, era più probabile che di lì a poco avrebbe rivoltato l’esistenza a parecchia gente. Infatti, una sera di inizio primavera è arrivata la sua telefonata: “Lucio! Abbiamo il locale e la promessa di due borse-lavoro. Meglio di niente. Ci vediamo dopodomani a casa mia”.
Ha chiuso la comunicazione senza darmi il tempo di dire alcunché. Agli ordini, capo!
Due giorni dopo ci siamo trovati in otto e mezzo (Giulia è entrata nell’ottavo mese di gravidanza) per discutere dell’idea di una bottega di riuso, riciclo, trasformazione, baratto, creazione, scambio di conoscenze, corsi di formazione e cosucce di questo tipo.
Immaginare di dare nuova vita a ciò che è a fi ne percorso era un po’ come parlare di noi, che per un motivo o per un altro avevamo tutti e tutte bisogno di ricominciare: Floriana per riempire i vuoti di vedova e pensionata, Giulia per darsi un’occasione lavorativa in vista della maternità da single, Flavio per trovare uno
spazio creativo, Pietro per non impazzire in qualità di prossimo disoccupato cronico, sua figlia Camilla per esercitare le sue doti artistiche, Elena per cambiare il mondo partendo da piccole azioni rivoluzionarie tra cui non nascondere il suo amore per Serena, Serena per amore di Elena e dei suoi ideali e io, ex-motociclistacretino, per trovare la maniera di utilizzare costruttivamente la parte superiore del corpo, l’unica che mi è rimasta attiva dopo l’incidente.
Quella sera è nata “Bussola e Sestante”, associazione no profit di navigatori con tante speranze e pochi denari.
Floriana ci aveva dato il primo compito: proporre dieci punti-caratteristiche del tipo ‘Nella bottega ci vuole…’. Mica facile! Fino a sei o sette non ho avuto problemi, poi non mi veniva in mente altro. Ma dieci era il numero obbligatorio. Non un punto in più, non uno in meno.
Abbiamo letto a turno le liste e votato punto per punto. L’unanimità l’ha avuta solo il campanello – dlin dlon! – proposto da me (il mio faticoso numero nove) e da Serena.
“Almeno sappiamo da dove cominciare!”, ha esultato Floriana versando nelle tazze una tisana rossa profumata all’arancia.

Grazie all’instancabile opera di persuasione del nostro generale supremo, l’amministrazione comunale ci ha concesso per due anni l’uso di un locale in un quartiere periferico in espansione, in mezzo a un’area-cantiere scomoda per tutti, in particolare per me, che dovevo attraversare su ruote aree di scavo, tappeti di cemento
fresco e tubi di gomma, zigzagando tra una quantità di buche in crescita costante. Prendere o lasciare. Preso.
Fortunatamente l’assessore era così entusiasta della nostra idea che ha fatto in modo di sbloccare rapidamente i fondi per due piccole borse-lavoro, una per Giulia e una per Pietro.

La settimana seguente il dlin dlon! segnalava l’ingresso in bottega di chi entrava con una latta di vernice o giornali vecchi. Abbiamo tinteggiato secondo il nostro disaccordo: ogni parete un colore diverso, perché su questo punto non eravamo arrivati all’unanimità e avevamo dovuto trovare un’alternativa. Abbiamo
stabilito che ciascuno poteva dipingere con tutti i colori tranne quello proposto, per esonerare dal compito Giulia, l’unica ad aver scelto il rosso, quella fra noi che più avrebbe patito la fatica e l’odore forte della tinta.
Pitturavamo a ritmo di musica rimuginando sul nome da dare all’attività.
Al secondo giorno di tinteggiatura, Camilla ci ha annunciato, tra i grugniti del padre, di essersi fidanzata con uno studente di medicina all’ultimo anno.
“Non sei contento?”, gli aveva domandato Floriana.
Lui aveva dato alcune pennellate piuttosto grintose, battezzando di verde Flavio e la mia sedia a rotelle, e aveva ringhiato: “Si chiama Bassam”.
Silenzio generale. “Embè?”, lo aveva sfi dato Camilla a spalle strette.
Dell’altro verde aveva piroettato nell’aria, accolto in gocce dal giallo limone della parete accanto. In quel momento è entrata Giulia e ha trillato: “Che idea fantastica!”. Senza far caso al nostro stupore ha preso il pennellino dei ritocchi e le latte di rosso e celeste, trasformando il giallo macchiato in un angolo fiorito
davvero grazioso.
“Ah, Camilla, qui fuori c’è uno che ti aspetta. Carino!”, ha poi riferito, facendo l’occhiolino all’amica e levando dita arcobaleno in segno di vittoria. Camilla è corsa fuori e Giulia si è trasferita a rendere floreale la parete azzurra, appena investita da un altro scatto d’ira di Pietro.
“Bassam. Che nome è Bassam?”, masticava Pietro fra sé, mentre Flavio lo disarmava per risparmiare fiorellini a pavimento e soffitto.
“In arabo signifi ca sorridente”, ha buttato lì Elena, che nei suoi pellegrinaggi da precaria aveva lavorato in una scuola serale frequentata da persone straniere.
Pietro si è seduto a terra a testa china.
Dlin dlon!
Sei paia d’occhi spalancati hanno fissato la porta, nella cui cornice è comparsa Camilla per mano a un giovanotto di carnagione ambrata, capelli e occhi nerissimi, in tuta e scarpe da tennis.
“Salve, posso essere utile?”, ha detto con un gran sorriso. A parte Giulia, ancora intenta a ritoccare, eravamo tutti piuttosto rigidi, impegnati a ruotare lo sguardo ovunque, evitando accuratamente il nuovo arrivato. Camilla era radiosa e ha trillato: “Vi presento Bassam, si laurea fra tre mesi ed è molto curioso di conoscervi. L’idea della bottega l’ha fatto letteralmente impazzire! Vero che può entrare nella compagnia?”.
Solo in quel momento Pietro lo ha guardato, da sotto in su, e quasi si sentivano ticchettare gli ingranaggi del suo cervello.
“C’è da dare l’arancione”, ha borbottato qualche istante dopo, alzandosi. “Vieni, ti mostro dove pitturare”, ha aggiunto, lanciando uno sguardo severo alla figlia, che l’ha ricambiato con un bacio in punta di dita.
Solo allora noialtri cinque abbiamo ricominciato a respirare.

Una volta preparato lo spazio l’abbiamo riempito. Ciascuno di noi ha portato qualcosa da casa. Elena ha messo a disposizione la sua macchina da cucire e una collezione infinita di rocchetti di filo. Floriana la caraffa elettrica per scaldare l’acqua, libri e un servizio da tè del corredo matrimoniale, specificando che era ancora
imballato e le sembrava simbolico usarlo per la prima volta in bottega. Serena ha portato alcuni scatoloni pieni di vestiti usati e una vecchia enciclopedia femminile appartenuta a sua mamma, zeppa di idee creative. Camilla e Pietro fogli, pennarelli, fumetti e una sbilenca e mastodontica libreria che lui e Bassam, ormai diventato ufficialmente il nono membro del gruppo, hanno trasformato in tre agili scaffali. Io alcuni libri, quattro sedie pieghevoli e un divanetto in discrete condizioni. Flavio una fornitura di tisane, tè e pacchi di biscotti degna di una colonia estiva di nonnetti.
E poi è arrivata Giulia, preceduta dal pancione più rotondo del pianeta, che ha portato casa sua. Alla lettera, intendo: era stata sfrattata un’ora prima e aveva deciso che, nell’emergenza, si sarebbe trasferita in un angolino del locale. La sua auto, in effetti, straripava di scatoloni.
Flavio ha detto che se la faccenda fosse arrivata alle orecchie sbagliate avremmo potuto dire addio al progetto, alla bottega e alle borse-lavoro.
“Ma io non mi farò sorprendere da nessuno, me ne starò buona… Almeno fi nché non partorisco…”, aveva implorato lei rivolta a Floriana, che si era limitata a fissarla.
“Beh, il bagno c’è, possiamo mettere una brandina nel retro, una luce accesa non si vedrà dalla strada…”, rimuginava Pietro a mezza voce.
“E per cucinare? Mica può andare a mangiare al ristorante tutti i giorni!”, ha borbottato Serena poco convinta.
“Possiamo portarle noi qualcosa a turno”, ha proposto Elena accarezzando i capelli della fidanzata e strappandole un sorriso di approvazione.
“Grazie mille. Allora mi sistemo di là”, ha esultato Giulia trascinando un borsone verso il locale piccolo.
“Non se ne parla”.
Floriana ci ha congelati in quattro parole.
“Dai, non lo diremo a nessuno…”, ho buttato lì, più per prendere tempo che per risolvere la questione. Non c’è scampo con lei, se si mette in testa qualcosa.
Giulia ha cominciato a singhiozzare: “Scusatemi, avrei dovuto dirvelo tempo fa, ma non sapevo come…”.
Floriana l’ha abbracciata e lei è scoppiata a piangere. Per alcuni minuti nessuno ha fiatato. Io fissavo il soffitto, Elena e Serena, mano nella mano, sospiravano a testa china, Camilla sgranocchiava unghie e polpastrelli, Bassam legava e slegava i lacci delle scarpe, Flavio si schiariva la voce come se nell’ugola avesse sassi da espellere, Pietro faceva un passo verso le donne abbracciate e uno all’indietro, pausa, passo avanti, pausa, passo indietro.
Quando Giulia si è calmata, Floriana le ha preso il viso fra le mani e, in un sorriso grande così, le ha sussurrato: “Tesoro, tranquilla, tu verrai a stare da me. Non devi isolarti proprio adesso”.
Un quarto d’ora dopo sorseggiavamo tisana bollente come fosse champagne pregiato, brindando a noi e a L’Isola del Tesoro, il neonato nome della bottega, scelto all’unanimità per celebrare degnamente il lieto fine del trasloco di Giulia.

Abbiamo fatto l’inaugurazione la settimana successiva. Decine di persone si sono scoperte bisognose di un luogo che offrisse scambi e rinascite a diversi livelli. L’Isola del Tesoro è diventata in breve tempo un porto vivace e disordinato, dove incontrarsi, barattare oggetti e conoscenze, fermarsi ad ascoltare o narrare
storie, donare e ricevere qualunque cosa, materiale o immateriale, dove trasformare una maglia in borsa per la spesa, minuscoli scarti di lana in mosaici, vecchi oggetti in nuovi strumenti.

Oggi abbiamo rinnovato il contratto per l’uso dei locali.
La festa a L’Isola del Tesoro, però, è dedicata alla prima ecografia del pupo (o pupa) di Elena e Serena, custodito nella pancia di quest’ultima, e al secondo compleanno del piccolo Leone, il figlio di Giulia, che saltella al centro del tavolo. Da qualche giorno, chissà perché, ha preso a chiamarci tutti ci-o e ci-a, a parte Floriana, no-na, e Pietro, no-no. “Sembro davvero tanto vecchio?”, brontola lui ogni volta che lo sente.
Danzando, il monello minaccia coi piedi nudi la torta di panna e cioccolato sulla quale ha comunque già impresso l’impronta delle manine.
Questo coraggioso selvaggio, stando al racconto della mamma, è nato imbronciato. “Evidentemente non posso chiamarlo Bassam”, ha sentenziato Giulia vedendolo per la prima volta. E ha quindi scelto per lui un nome grintoso.
La prima volta che è venuto a trovarci all’Isola del Tesoro, Leone si è annunciato da lontano, ululando come una sirena d’ambulanza.
“Uèèèè! Uààà! Uèèè!”.
Giulia, che si avvicinava spingendo la carrozzina con decisione, aveva gli occhi spiritati, le guance scavate, i nervi sotto pressione.
“Sono dieci giorni che fa così. Se non mangia o non dorme, urla. Dieci giorni!”, ha strillato la neo-mamma a Serena, accorsa sul marciapiede per aiutarla a entrare.
“Ma quanti giorni ha, scusa?”, le ha chiesto Serena, perplessa.
“Undici”, ha detto Giulia digrignando i denti.
Sono scoppiate a ridere davanti alla vetrina, col sottofondo ululante del tenero bebè.
“Uèèè! Uààà! Uèèè!”.
“Ci farò l’abitudine, spero”, ha sospirato Giulia chiudendo la porta.
Dlin dlon!
E il silenzio è precipitato su di noi.
Ci siamo immobilizzati all’istante. Che fossimo diventati improvvisamente sordi?
“Uèèè! Uààà! Uèèè!”, ha ripreso il cucciolo per fugare ogni dubbio.
Dlin dlon! Serena ha riaperto la porta in punta di piedi. Silenzio istantaneo.
Dlin dlon! Dlin dlon! Dlin dlon!
“Funziona!”, ha esultato Giulia prendendo in braccio il bimbo e facendo una piroetta.
Dlin dlon! Dlin dlon! Dlin dlon!
Evviva il campanello de L’Isola del Tesoro! Da quel giorno, ogni volta che Leone veniva a trovarci, facevamo i turni alla porta. Apri, chiudi, apri, chiudi, dlin dlon! dlin dlon!
Dopo un po’, fortunatamente, gli è passata la smania, tanto che oggi potremmo anche soprannominarlo Bassam senza sbagliare di molto.
Ma un Leone ci vuole, nell’Isola del Tesoro, non è vero?

(pubblicato in "Diverso sarò io - Racconti sulla diversità a 360 gradi", a cura di Ass. Cult. Pescepirata, Armando Editore, 2014)

14 marzo 2014

Niente panico!

Tutto comincia in una piazza di una bella città italiana. Un teatro di strada dà spettacolo e ai due lati del piccolo anfiteatro in cemento spiccano i cartelli: “Capricci di Dei - Che succede oggi sull'Olimpo?”, segue l'elenco dei personaggi e dei relativi interpreti. Lo spettacolo è già iniziato.
Diana appoggia su un'incudine una strana scatola. Efesto la osserva, abbassa la fiamma della fornace, saluta Diana, che si allontana di corsa, e si mette ad armeggiare con lo strano aggeggio. Si chiude il sipario di lenzuola. Il pubblico regala un leggero applauso e qualche sbadiglio.
Il sipario si riapre su una scena diversa.
Apollo è sdraiato su un sontuoso divano, in penombra, e armeggia con la scatola vista nell'atto precedente, una strana console elettronica piena di lucine che emette suoni metallici. Giove si avvicina alle sue spalle e lo apostrofa.
GIOVE: Che io mi possa fulminare! Cosa stai facendo, mio adorato Apollo?
APOLLO: Scialla, Padre. Diana l'ha portato, Efesto l'ha modificato e io ci gioco.
GIOVE: Giochi? Ma è notte fonda.
APOLLO: Appunto. Tranquillo, all'alba farò il mio dovere.
Afrodite si presenta sulla scena danzando leggiadra, in camicia da notte. Quando scorge Apollo alle prese con il videogioco si butta al suo fianco e osserva il monitor.
AFRODITE: Yo, fratello! Ecco la fonte della musica. Fai vedere! Gioco anch'io.
Senza voltarsi Afrodite alza il braccio sinistro ingioiellato e agita le dita della mano.
AFRODITE (senza guardare Giove): Ciao, papino!
GIOVE (rauco): Ciao...
Giove si osserva attorno, fa un passo avanti, apre la bocca, fa un passo indietro, chiude la bocca, si volta, si rivolta e alza l'indice destro, apre la bocca e la richiude subito dopo. Poi si allontana muto mentre Apollo e Afrodite continuano a pigiare freneticamente sui tasti.
Tra il pubblico una donna si volta verso il marito e gli sussurra in un orecchio: “Carino, per carità, ai bambini piace. Ma quando finisce?”
L'uomo risponde: “Non dovrebbe mancare molto” e consulta l'orologio. Poi scuote il polso e avvicina il quadrante all'orecchio. “Forse si è scaricata la pila” si giustifica e si volta verso il signore seduto al suo fianco, tamburellandosi il polso sinistro con l'indice destro. Il vicino osserva il proprio orologio e replica ogni precedente movimento del suo interlocutore, fino alla richiesta di informazioni alla signora seduta dietro. Replay al femminile. Il ragazzo a sinistra della donna consulta il cellulare, lo scuote e si rivolge alla fidanzata al suo fianco. In poco tempo tutta la scalinata si accorge di non conoscere l'ora esatta.
Sotto gli sguardi perplessi degli attori, il pubblico si alza e sciama per i vicoli della città, alla ricerca di campanili e di orologi pubblici. Niente da fare. Tutti gli orologi segnano la stessa ora da decine di minuti, ormai.

Il ragazzo al tavolino chiude il libro e scuote la testa. Poi si rivolge all'amica.
« Che buffo. Questi qui sono andati in panico per una scemenza. Se penso che è così bello, invece, vivere senza orologi, non trovi? »
« Oh, sì. Luce e buio come unici organizzatori del tempo. Si sta davvero bene. »
« Però, a proposito, è meglio se adesso andiamo alla stazione, ci conviene partire con la luce. »
« D'accordo. Vado a pagare i caffè. »
La ragazza si alza, prende la borsa e si allontana frugandoci dentro. Il barista digita lo scontrino, fa scattare il cassettino del denaro e nel frattempo lei recupera il portafoglio. Quando lo apre le sfugge un gemito. E' vuoto.
« Lascia, faccio io. » Dice con un sogghigno l'amico, ma anche lui si scopre squattrinato.
Il cassiere alza gli occhi al cielo.
« Mi scusi... Non so come... Posso lasciarle un documento e domani passo a saldare? »
« Aspetta. Io prima sono passata al bancomat a prelevare. Com'è possibile? »
Il barista sbuffa e armeggia con la cassa.
« Oh, merda. » Sibila spalancando il cassetto dei soldi. Vuoto. Poi aggiunge, come in trance: « Un attimo fa ho dato il resto di 50 euro... merdamerdamerda. »
Gli altri avventori, perplessi, controllano i propri portafogli. Sono tutti vuoti. Scoppia il panico. Una rapina! Un furto multiplo! Chi è stato? Come ha fatto? Maledetto! Governo ladro! Che c'entra il governo? E adesso come pago le sigarette?
Barista e clienti corrono fuori dal locale e travolgono un'anziana signora di passaggio. Lei mantiene miracolosamente l'equilibro e fissa lo sguardo in quello del primo che le capita a tiro, prendendolo per un braccio e strillandogli in faccia: « Ero in panetteria, stavo pagando latte e grissini, avevo un biglietto da cinque euro nella mano, la commessa stava per prenderlo e darmi il resto... di colpo i soldi sono spariti... no, non caduti, proprio spariti! La mia banconota e le monetine del resto... »

« Se penso che andavano in panico per dei pezzi di carta o dei dischetti di metallo... » Commenta a voce alta la donna davanti all'immagine in bianco e nero esposta nella bacheca fuori da scuola. Era una vecchia foto di un negozio dove una commessa sorridente stava conversando con alcuni clienti mentre consegnava il resto a una vecchina un po' curva con una borsa di stoffa al braccio. Sopra e sotto l'immagine c'era scritto: “Come eravamo: il denaro. Mostra permanente. Ingresso libero il sabato mattina”.
« Me lo ricordo, quando si usavano i soldi! Che tempi! » Ridacchia un vecchio in attesa.
Al suono della campanella un fiume di bambini e bambine invade il marciapiede e la strada. La donna prende per mano i due figli gemelli, il vecchio si carica a spalle la cartella della nipotina. Nel disordine quotidiano del pomeriggio, ogni alunno raggiunge il proprio accompagnatore. Dopo alcuni secondi di richiami, strilli e inseguimenti, però, tutti si immobilizzano, tranne una donna e un ragazzo in bicicletta, seguiti da due piccoli ciclisti con cartella in groppa. La strada è vuota. Il parcheggio è deserto. Non ci sono le automobili. Nemmeno quelle che aspettano col motore acceso. Sono rimasti soltanto la bicicletta del preside, incatenata al lampione, e un triciclo abbandonato in attesa del suo piccolo proprietario.
La città è diventata ferma e silenziosa. Nessun autobus, nessun furgone, nemmeno il ronzio di un motorino scassato. I bambini e le bambine materializzano dalle cartelle corde, freesbee, lunghi elastici e palloni e si spargono in giro vociando, mentre aspettano che i grandi si riprendano dalla sorpresa.

AFRODITE: Ben fatto. Mi piace.
APOLLO (inspira sonoramente): Già. Senti che profumo nell'aria, adesso...
AFRODITE: Dai, è troppo presto per sentire il cambiamento! Ti stai autosuggestionando...
APOLLO: Auto-suggestione. Niente auto, bella suggestione. No?
AFRODITE: Eheheh!
APOLLO: E adesso?
AFRODITE: Vuoi fare altro?
APOLLO: Sì, dai, ancora una e poi spengo.
AFRODITE: Mmmm. Fammi pensare... A te piacciono tanto i giochi linguistici. Perché non eliminiamo le parole?
APOLLO: Sei un genio!
Apollo digita su alcuni tasti e parte la musichetta di attesa.
AFRODITE (gli strappa di mano la console): Faccio io!
La dea digita il tasto di esecuzione e all'istante

8 gennaio 2014

Tana!

Come ogni mattina, dall'alto della quercia che fa ombra alla grotta, Gug fissa la valle disabitata oltre la foresta proibita. Non è a caccia con gli altri, anche se ha già nove anni. Non è abbastanza alto. Bisogna essere alti, infatti, per oltrepassare indenni le paludi, quindi lui è costretto a restare con le donne e i poppanti. Insomma, da solo.
Ai piedi dell'albero, Agga riceve dalla donna-saggia alcuni giunchi. Dovrà intrecciarli per farne un cesto, mentre la vecchia andrà a raccogliere erbe. Ma il lavoro è difficile per lei che ha mani grandi, con dita corte e tozze. Si siede lì, isolata, fuori dal cerchio delle ragazze dalle mani abili, e comincia a lavorare.
Quando Gug scende dall'albero quasi la calpesta.
Agga gli mostra i denti, ma lui non se ne cura e osserva la palla informe sulla quale lei sta sudando.
« Cesto? Ah! Ah! Ah! ». Ride forte, Gug, mentre con un dito indica il lavoro di Agga. La sua risata richiama le altre donne. In pochi minuti tutto il gruppo si fa gioco di Agga con grida e smorfie.
Lei sente caldo, le orecchie le fischiano, i muscoli si contraggono. D'un tratto comincia a sferrare calci e schiaffi attorno. Le altre allora cercano di allontanarla con bastoni e pietre. Sono tante, a lei non resta che scappare, calpestando il suo cesto malriuscito.
Agga si nasconde lontano, sulla riva dello stagno che porta al fiume, in un buco fra le rocce. Al buio, nell'odore di animali ed erba ammuffita, ritrova la calma e piange un poco.
CIAC CIAC CIAF... SGUISH!
Qualcuno o qualcosa si avvicina. Agga afferra un sasso pesante e si prepara a difendersi. Un cespuglio si muove. Agga stringe la pietra e striscia verso l'uscita, pronta a colpire.
Esce dal nascondiglio e vede che l'intruso è Gug, immerso fino alle ginocchia nello stagno lì davanti. Vuole imparare a superare le paludi, ma quella è solo una pozzanghera, nulla a che vedere con le distese di sabbie profonde e pericolose che affrontano i veri cacciatori.
Agga sogghigna e lancia la grossa pietra in alto. Il sasso cade con un tonfo a pochi centimetri da Gug, schizzandogli fango su petto e volto.
« Fango!... Ah! Ah! Ah! ». Tocca a lei ridere, adesso.
Il ragazzo, chiazzato di marrone, afferra un bastone e le corre contro. Lei scappa, decisa ad attraversare il fiume, impresa impossibile per il piccolo Gug.
E' immersa nell'acqua fino all'ombelico quando succede.
BRABABOOM!
Una frana gigantesca si stacca da una montagna e rotola nel lago soprastante, spingendo le acque con violenza. Gug, in equilibrio su alcuni sassi, viene travolto dall'ondata. L'istante successivo sono in due a essere trascinati nella corrente.
Dopo qualche minuto di annaspamento, Agga riesce ad aggrapparsi a una roccia. Afferra senza riflettere il bastone che le passa accanto, attaccato al quale c'è Gug. Le mani della ragazza non mollano la presa e in poco tempo i due si ritrovano, zuppi ma salvi, sull'altra riva del fiume.
Sono scesi molto a valle. Per tornare indietro devono attraversare la foresta proibita, oppure risalire il torrente, ma la corrente in quel punto è troppo forte. La scelta è quindi obbligata e i due si avviano verso il bosco che comincia a pochi metri da loro. Sono ancora umidi quando si inoltrano fra gli alberi, ringhiandosi contro a vicenda. « Tu! » ruggisce Agga dopo un po', spingendo Gug contro una roccia. « No! Tu! » replica lui tirandole pezzi di legno marcio.
CRAC!
Un rumore sordo conclude all'istante la disputa su chi sia il colpevole del guaio. I due si immobilizzano, appiattendosi affiancati alla stessa roccia.
TUM!
Un altro suono li raggiunge e Gug, lesto, si issa sulla sommità del masso. Agga si limita a guardarlo ruotando appena la testa. Un fruscio scuote un cespuglio lì vicino e due lepri giganti sfrecciano al loro cospetto, rompendo rami e facendo rotolare pietre per la foga del gioco.
CRAC! TUM!
Gug scivola di nuovo a terra. « Tu! » ricomincia, ma meno convinto di prima. « No! » sibila Agga in un soffio, occhi stretti e denti in mostra.
Ben presto un grosso crepaccio li costringe ad allontanarsi dal fiume e in poco tempo Agga e Gug si smarriscono nel fitto del bosco. Procedono insieme all'ombra, senza toccarsi né guardarsi, in silenzio, spaventati dai rumori sconosciuti che li circondano.
A un certo punto Agga inciampa e sbatte contro un albero massiccio, facendo scappare uno stormo di grossi uccelli neri. Gug li osserva volare e subito si arrampica su quel tronco. Agile come uno scoiattolo, passa di ramo in ramo fino al punto più alto possibile.
Dalla cima della pianta si guarda attorno. Vede il lago e grida verso Agga: « Tana! », indicando la direzione da prendere. Agga fa un profondo respiro.
Poi Gug si gira per scendere e vede la valle oltre la foresta.
E' più vicina, da questa prospettiva. Ci sono un fiume, un bosco, alcuni prati e, ai piedi della montagna, delle grotte. Sembra disabitata, anche perché un gruppo di cervi pascola indisturbato in riva all'acqua.
Ritorna lentamente da Agga e le offre due uova rubate da un nido.
« Cibo! » esulta lei e gli sorride per la prima volta. Mangiando, si incamminano nella direzione di casa. Gug ogni tanto si volta indietro e sospira.
Quando scende la notte salgono su un castagno e aspettano l'arrivo dell'alba. Inizialmente occupano due rami diversi, ma paura e freddo li convincono presto a sedersi vicini. I suoni notturni sono troppi per poter dormire davvero. Dall'alto del loro rifugio Agga e Gug scorgono ombre di cinghiali e di altri esseri sconosciuti. Ululati, grida, fruscii, sibili li tengono svegli per tutta la notte. Anche nei rari attimi di assoluto silenzio sembra che vi siano belve in agguato, pronte ad attaccarli. Serpenti? Pantere? Orsi? I due giovani trattengono il fiato sperando che nessuno percepisca il rimbombo frenetico del tamburo che hanno nel petto.
Alle prime luci del giorno si rimettono in marcia e quando il sole è alto sentono nuovamente il rumore dell'acqua. Escono correndo dalla foresta e si trovano in riva al lago. Sono saliti troppo, ma da lì conoscono la via sicura per tornare a casa.
Mentre sono chini per bere sentono un lamento: « Ahi! Uuuh! ». Si voltano e vedono, poco lontano, una mano che spunta da un mucchio di sassi e si agita. Agga riconosce gli ornamenti della donna-saggia e sposta alcune pietre, scoprendole il volto. La frana che ha fatto straripare il lago il giorno precedente l'ha sepolta. Rapidamente i due giovani spostano sassi e terra per liberarla. Quando resta solo più un masso, il più pesante di tutti, Gug spinge Agga di lato e prova a farlo rotolare lontano. L'unico risultato che ottiene è di ferirsi un palmo e far urlare di dolore la vecchia. Allora Agga scosta il ragazzo con gentilezza, si sputa sulle mani, infila le dita fin dove riesce sotto l'ostacolo e lo solleva. La donna sposta la gamba e Agga lascia cadere la pietra a terra. L'arto è malridotto, ma la sciamana è forte e si puntella a un bastone per poter stare in piedi e camminare.
« Fiume... Foresta... Tana! » dicono Gug e Agga gesticolando.
La donna spalanca gli occhi e li fissa incredula. Poi guarda lontano, verso la foresta proibita, che nessun uomo ha mai osato attraversare, e riporta nuovamente lo sguardo sui giovani, graffiati, sporchi e sorridenti.
In silenzio, assentendo col capo, fruga nel sacchetto di pelle alla cintura e consegna ai suoi salvatori due ciondoli composti da una conchiglia variopinta infilata in un cordino di cuoio: il segno di passaggio all'età adulta, che i membri della tribù ricevono a dieci anni, dopo la prova di iniziazione.
Ridono, Gug e Agga, mentre scortano la donna verso la caverna. Quando vedranno il talismano, conquistato un anno prima del tempo, gli altri non oseranno più deriderli o emarginarli per la statura o la goffaggine!
A pochi metri dalla caverna, ancora nascosti alla vista del clan, Gug si ferma e accarezza il ciondolo. Poi si volta nella direzione della valle disabitata, oltre la foresta proibita, e sospira.
« Tana... » sussurra.
« Tana? » chiede Agga piegando la testa di lato e premendo la conchiglia al petto con una mano.
Gug le fa un sorriso, imita il suo gesto stringendo il talismano e si allontana.
Lei appoggia la sciamana a un tronco e lo insegue a passi veloci. Lo oltrepassa e gli si para davanti, indicando verso la loro caverna.
« Tana! » gli dice a occhi spalancati.
« Tana... » ripete lui scuotendo il capo. Poi accenna di fronte a sé e stringe il ciondolo con forza.
« Tana! » esclama a testa alta con lo sguardo fisso all'orizzonte, verso la valle sconosciuta.
Gug supera Agga e prosegue in direzione della foresta. Lei lo osserva camminare per un po'. Poi si volta verso la vecchia, ancora aggrappata al bastone, solleva le spalle, sorride, si gira su se stessa e lo segue.

9 luglio 2013

Resocanto

Bambine e bambini dagli occhi accesi
lasciano i giochi a cui sono appesi,
sfiorano i libri con mani sabbiose,
le loro facce si fanno curiose.
“Leggimi questo!”... “No, questo qua!”...
Uno alla volta, che male non fa.
Facciamo anche il bis dei libri più amati:
e vai di smorfie, salti, ululati!
Rendiamo vive le storie a colori,
che facciano il nido nei nostri cuori.

Oggi mi ascoltano nove musetti,
ieri eran tre, anche un poco distratti.
C'è stato un giorno in cui nessuno/a davvero
è rimasto/a a sentire un libro intero.
Quella volta ero triste, poi ho pensato: “Eggià,
mi hanno dato una lezione di libertà!”
Una storia la gusti se ti va di ascoltare,
altrimenti fai bene a continuare a giocare.

Con mostri selvaggi e lavandaie scatenate,
Rufus, Alice e streghe sfortunate,
con facoceri e tigri, pinguini e Nanuk,
ci piace da matti questo FLASHBOOK!

(per Flashbook-letture a ciel sereno 2013)

19 maggio 2013

In breve

Cento metri a stile libero, quattrocento a farfalla, la staffetta a delfino e ottocento metri a rana. Ancora il tuffo doppio carpiato e la finale di pallanuoto.
Papà, al mattino, dice che sembra che sul mio letto sia passato un tornado.
Io, invece, mi stiro sentendomi stanca e felice, perché ho vinto le olimpiadi di nuoto notturne!

30 marzo 2013

Intrecci

Amica mia,
in te vi sia posto per il ricordo.
Il ricordo del dolore delle donne,
che siano vicine o lontane nel tempo e nello spazio,
sfruttate uccise umiliate violate incatenate mutilate.
E vi sia anche in te il posto per la gioia.
La gioia dell'amore, dell'amicizia,
delle feste, delle risate, delle coccole,
la gioia delle scoperte importanti,
la gioia della libertà,
la gioia dei saluti offerti a chi arriva e a chi parte.
Ma soprattutto in te vi sia l'arte dell'intreccio.
Intreccio dei capelli, delle stoffe, degli impasti,
ma anche delle mani e delle storie,
affinché il dolore condiviso riesca sempre a trasformarsi in ricordo
per lasciare in ciascuna posto alla gioia.